Pubblichiamo il ricordo del Prof. Stefano Rodotà a cura del Prof. Antonio D’Aloia. Lo scritto è stato pubblicato in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto 2/2017.
In ricordo del Prof. Stefano Rodotà
Anno 2017
Un uomo di frontiera, anzi senza frontiere: così è stato definito Stefano Rodotà nel bel ricordo scritto da Tommaso Frosini per “Il Mattino”. In effetti, nei suoi itinerari intellettuali Rodotà ha sempre attraversato le frontiere della scienza giuridica, spesso indicandone di nuove.
Diritto e politica, diritto e storia sociale, diritto e scienza, settori disciplinari del diritto: la riflessione di Rodotà si è spinta tra le linee di queste ormai apparenti divisioni, le ha ricostruite in punti diversi, mostrando prima e più approfonditamente ciò che stava emergendo.
Il suo contributo alla analisi (o meglio alla configurazione stessa) del diritto delle questioni bioetiche, e più in generale del rapporto tra diritto scienza e tecnologie, è stato fondamentale e anticipatore.
Dal pioneristico Elaboratori elettronici e controllo sociale del 1973, alla raccolta di scritti su Questioni della bioetica della fine degli anni ottanta, da Repertorio di fine secolo del 1992, in cui la parte III era intitolata emblematicamente “un mondo nuovo” (si parlava di procreazione, consenso informato, scelte di fine vita, ingegneria genetica), fino ai più recenti La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (del 2006), e Il diritto di avere diritti del 2012, Rodotà ha giocato con straordinaria competenza e capacità di intuizione, la sfida mutevole, e continuamente esposta a novità e assestamenti, del progresso scientifico e tecnologico, e delle sue implicazioni etiche, culturali, e politico-giuridiche.
Aveva capito da tempo, Rodotà, che “il terreno forse del conflitto più profondo … è la biologia, aggiungendo che “un mondo inquieto s’interroga sui dilemmi della vita e della morte, sul senso di tecnologie della riproduzione già in grado di sconvolgere i sistemi di parentela e l’ordine della procreazione, sul rispetto della dignità umana di fronte alla trasformazione del corpo in macchina o merce, su una ricerca genetica che arriva a predire destini individuali e promette interventi in profondità sui caratteri costitutivi della persona”. …
In questo senso le sue riflessioni non erano mai una semplice lettura (per quanto critica) dell’esistente o delle posizioni e delle ragioni di volta in volta in conflitto, ma uno sguardo lungo, pieno di domande inedite, di curiosità ed inquietudini, ben cosciente che la posta in gioco era più alta e complessa della soluzione di problemi e casi pur drammatici, ma la ridefinizione stessa delle categorie del diritto, la presa d’atto dei suoi limiti nel poter afferrare tutto quello che si muove nel delicato rapporto tra ‘natura’ e ‘artificio’.
Le questioni erano affrontate su un registro inevitabilmente influenzato dalla sua passione civile e politica: non era solo il giurista a discutere di dilemmi bioetici sull’inizio o la fine della vita, di possibilità e limiti dell’intervento sul genoma umano, di medicina predittiva o intelligenza artificiale, di clonazione; ma il convinto sostenitore di un’idea di dignità umana fortemente radicata sull’autodeterminazione del soggetto, sulla sua irriducibile soggettività morale.
Ha dato dignità scientifica alla parola biodiritto, come espressione di una transizione verso quella che lui stesso chiamava una ‘doppia interdisciplinarietà’: interna ai settori della scienza giuridica, e come esigenza di un dialogo costante e (reciprocamente intriso di curiosità) tra il mondo del diritto e le altre scienze implicate nel discorso bioetico.
Nella introduzione, scritta insieme a MariaChiara Tallacchini, al primo volume del Trattato di Biodiritto (monumentale opera in 6 volumi diretta e curata con Paolo Zatti, che riprende per noi il prototipo americano della celebre e risalente Encyclopedia of Bioethics di Warren Reich), sottolinea la necessità che il biodiritto si traduca in ‘percorsi di comprensione’ “indispensabili per capire la struttura che connette l’evoluzione delle scienze della vita ai precedenti paradigmi delle scienze fisiche, alle scelte etiche e politiche, ai passaggi tra bioetiche e sistemi biogiuridici, ai legami tra scienza e società”.
L’eredità di Stefano Rodotà è davvero ricca di prospettive e ipotesi teoriche, e proprio per questo è al tempo stesso difficile, impegnativa. Contiene semi da coltivare, idee da sviluppare, consapevolezza che il diritto va studiato oltre le forme e le regole, che vanno capite e interpretate le strutture sociali e le forze che ne guidano le dinamiche di cambiamento, le connessioni profonde e reciproche con la storia sociale, economica, politica.
Per questo è stato un Maestro e un punto di riferimento oltre una singola Scuola e un singolo settore disciplinare.
Michele Ainis ha ricordato che per Rodotà “ai diritti bisogna voler bene”; ma non ai diritti solitari, o irrelati, o ‘insaziabili’ (per usare la fortunata espressione di Anna Pintore), ma ai diritti che costruiscono legami sociali proprio grazie “al loro collegarsi strutturale con la solidarietà e i suoi doveri”.
Sembra quasi una sequenza ideale quella che disegna Rodotà scrivendo dopo Il diritto di avere diritti, il piccolo ma denso scritto sulla Solidarietà come ‘utopia necessaria’ (2014), che nella sua appassionata visione “scardina barriere, demolisce la nuda logica del potere, […] è l’antidoto ad un realismo rassegnato che non lascia speranze, che non lascia diritti”.
Come i diritti, anche la solidarietà –nella elaborazione di Rodotà- è oltre il tempo e lo spazio dei diritti nazionali, è contemporaneamente ‘intragenerazionale’ e ‘intergenerazionale’.
La sua forte sensibilità politica, l’idea che il diritto è non è solo un riflesso inerte della storia sociale ma contribuisce a forgiare i suoi percorsi, emerge nella riflessione conclusiva di questo libro, che possiamo considerare un pezzo della sua eredità.
La solidarietà rivela una ‘capacità trasformativa’: di fronte ad essa non c’è solo un “presente ingrato” di cui rimanere “prigionieri”, ma “l’apertura verso un futuro non scritto una volta per tutte”, il futuro di “una società umana e democratica, che sa individuare i principi che la fondano, e dai quali sa di non potersi separare”.
Aveva seguito con attenzione la nascita di Biolaw Journal, accettando di far parte del Comitato scientifico della Rivista. Un grande onore per tutti noi, e una enorme responsabilità nel continuare oggi e domani un percorso di ricerca e di confronto –sempre aperto, libero, pluralista- sugli impatti etico e giuridico degli avanzamenti della scienza e della tecnologia.
Alla Sua memoria dedichiamo questo fascicolo.
(Parma, 24 giugno 2017)
Antonio D’Aloia