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Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Haugen v. Norvegia: la Corte condanna la Norvegia per violazione degli artt. 2 e 13 della CEDU a seguito del suicidio in carcere di un soggetto che soffriva di disturbi psichiatrici
15 ottobre 2024

Nel caso Haugen v. Norvegia la Corte EDU ha ravvisato una violazione degli art. 2 (diritto alla vita) e art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione in quanto le autorità norvegesi non hanno tenuto una condotta tale da evitare il suicidio di un soggetto affetto da disturbi psichiatrici durante la sua detenzione carceraria.

Numero
Ric. n. 59476/21
Anno
2024

Il caso di specie

Il ricorrente è un cittadino norvegese il cui figlio, X, è stato condannato nel 2019 a un trattamento sanitario obbligatorio a seguito di un tentato omicidio e di altri atti criminali commessi in stato di psicosi.

Inizialmente, presso il reparto psichiatrico di Reinsvoll dell'Innlandet Hospital Trust, lo stato di salute del figlio era migliorato grazie al ricovero e al trattamento con iniezioni di antipsicotici. 

Nel dicembre 2019 X era stato però trasferito in una struttura residenziale comunale, con minori restrizioni di sicurezza, per vivere in un alloggio condiviso con altri pazienti e, poco tempo dopo, il 17 gennaio 2020, uccide un altro paziente mentre era sotto l'effetto dell'alcol.

A causa di quest’ulteriore omicidio, ad X viene dunque comminata la misura cautelare della detenzione carceraria da scontarsi però nella cd. Unità 1 del carcere di Oslo, spazio in cui vengono collocati i detenuti che necessitano di un trattamento sanitario speciale. 

A seguito, tuttavia, della valutazione della condizione precaria della salute mentale di X condotta da alcuni specialisti, X viene ricoverato all'ospedale IHT Sanderud per poi essere tuttavia condotto nuovamente in detenzione.

Il 1° marzo 2020 X viene trovato morto suicida dal personale del carcere intorno alle 9.15 nella sua cella dove era rimasto da solo dalle 18.30 della sera precedente.

A seguito di tali eventi, il ricorrente procede a denunciare il suicidio di suo figlio ma la polizia, dopo aver condotto le opportune indagini, decide di non procedere contro la direzione del carcere o qualsiasi altra autorità, in quanto ritiene che nessuno di questi abbia commesso una grave negligenza o tenuto una cattiva condotta professionale nell'esercizio delle proprie funzioni. 

Ulteriori ricorsi interni del ricorrente non hanno avuto successo.

Invocando la tutela degli art. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della CEDU, il ricorrente si rivolge allora alla Corte EDU innanzitutto sostenendo che lo stato mentale di suo figlio era incompatibile con la detenzione preventiva e che conseguentemente le autorità non avevano fatto tutto ciò che era necessario ad evitare che X si suicidasse durante la detenzione. Il ricorrente lamenta inoltre l’inadeguatezza delle cure mediche fornite e dell'isolamento in carcere, così come l’inefficacia dei rimedi interni a tutelare le sue doglianze. 

La decisione della Corte

La Corte in prima battuta sottolinea la centralità dell’art. 2 CEDU nel sistema convenzionale dei valori fondamentali delle società democratiche, ricordando come dallo stesso derivi oltre un dovere di astensione dello Stato dalla soppressione della vita, anche un obbligo positivo di «take preventive operational measures to protect an individual from others or, in certain specific circumstances, from themselves» (parr. 132 e 133).

Quanto al caso di specie, dopo aver stabilito alla luce del compendio probatorio allegato che le condizioni mentali di X erano sufficientemente gravi da rendere evidente alle autorità il rischio di suicidio, la Corte arriva ad accertare come ci siano state gravi carenze nel coordinamento delle cure mediche di X e nella comunicazione tra le autorità mediche coinvolte nel caso. Ciò ha fatto sì che, dopo il suo ritorno dall'IHT Sanderud, X ricevesse cure mediche limitate, nonostante i suoi disturbi mentali diagnosticati e i ripetuti pensieri suicidi (par. 152).

Tali considerazioni hanno consentito alla Corte di concludere che le autorità norvegesi, nel caso di specie, non hanno fatto tutto ciò che si sarebbe potuto ragionevolmente aspettare da loro per salvaguardare la vita del figlio del ricorrente, che era interamente sotto il loro controllo (par. 153).

Ciò, secondo la Corte, integra una violazione del diritto alla vita, tutelato dall’art. 2 della Convenzione.

Quanto poi alla lamentata violazione dell’art. 13 CEDU (“Diritto a un ricorso effettivo”), i giudici hanno ritenuto che non vi fosse per il ricorrente un mezzo adeguato ad ottenere un accertamento dell’accusa di mancata tutela del diritto alla vita di X e il conseguente risarcimento del danno. In particolare, la Corte ha rilevato che i mezzi processuali previsti dalla legislazione norvegese sul punto fossero inadeguati e non offrivano prospettive di successo nel caso di specie (par. 163).

La Norvegia viene quindi condannata al pagamento nei confronti del ricorrente di € 30.000 a titolo di risarcimento per i danni non patrimoniali e € 6.530 euro per le spese e i costi sostenuti. 

Va inoltre sottolineato che si tratta della prima violazione dell’art. 2 da parte della Norvegia.

Il testo della sentenza è disponibile a questo link (in lingua inglese) e nel box download. 

Vittoria Da Ros
Pubblicato il: Martedì, 15 Ottobre 2024 - Ultima modifica: Sabato, 02 Novembre 2024
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