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Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - S.V. c. Italia: transizione di genere
11 ottobre 2018

Con la decisione S.V. c. Italia la Corte EDU ha stabilito che vi è stata la violazione dell’art. 8 della CEDU da parte dell’Italia nell’aver negato la possibilità ad una donna transgender di cambiare il proprio nome sulla base del mancato accertamento, da parte di un tribunale, del pieno “cambio di sesso”, nonostante la donna avesse intrapreso un percorso medico di transizione e fosse socialmente riconosciuta nel proprio genere d’elezione.

Numero
ric. n. 55216/08
Anno
2018

La ricorrente, L., iniziava la propria transizione nel 1999 sottoponendosi anche a trattamenti ormonali. Nel 2001 veniva autorizzata dal tribunale a sottoporsi a interventi chirurgici di confermazione del sesso, in conformità alla legge italiana. In attesa di realizzare gli interventi chirurgici, la ricorrente proponeva istanza al prefetto di Roma sulla base del DPR 396/2000 al fine di modificare il proprio nome maschile, fonte di imbarazzo e umiliazione. La richiesta veniva rigettata dal Prefetto e impugnata davanti al Tribunale amministrativo regionale dalla ricorrente nel 2002. Il Tar decideva nel 2008, quando ormai era avvenuta la rettifica anagrafica del sesso sulla base della procedura dettata dalla l. n. 164/1982. Nella sentenza, il giudice amministrativo stabiliva che la disciplina del DPR 396/2000 non poteva trovare applicazione nel caso concreto poiché era necessario procedere alla verifica dell’avvenuta “conversione sessualesecondo quanto previsto dalla legge n. 164/1982.

La ricorrente si rivolgeva pertanto alla Corte europea dei diritti umani, lamentando la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, nello specifico sostenendo che il rifiuto da parte delle autorità italiane di modificare il nome avesse leso il suo diritto all’identità di genere.

La Corte EDU, pur affermando l’esistenza di un ampio margine di discrezionalità da parte degli Stati nel dettare le condizioni per la modifica del nome delle persone, rileva che nel caso di specie non è stato effettuato un corretto bilanciamento fra tutti gli interessi in gioco. Infatti, nell’anteporre l’interesse Statale alla realizzazione del diritto alla propria identità sessuale, uno degli aspetti più intimi della vita privata, l’Italia ha violato la Cedu.

Benché la verifica della sussistenza di valide motivazioni per procedere alla modifica dell’iscrizione anagrafica possa essere coerente con il principio di certezza dello stato civile, la Corte afferma che le autorità italiane non hanno valutato correttamente il caso specifico della ricorrente. Il fatto che fosse stato ignorato che la stessa stava effettuando una transizione di genere da molti anni e che la sua identità di genere fosse riconosciuta nel contesto sociale di riferimento, ne ha prolungato per più di due anni il disagio derivante da risultanze di stato civile difformi rispetto all’identità e non risulta, perciò, in alcun modo giustificabile.

La Corte fa inoltre riferimento alla Raccomandazione (2010)5 del Comitato dei Ministri in cui si rileva la necessità che gli Stati garantiscano procedure veloci e trasparenti per il cambio del nome delle persone transgender.

Il testo completo della decisione, in lingua francese, è disponibile nel box download.

La traduzione in italiano della sentenza è disponibile nella sezione dedicata del sito del Ministero della Giustizia.

Carla Maria Reale
Pubblicato il: Giovedì, 11 Ottobre 2018 - Ultima modifica: Venerdì, 28 Giugno 2019
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