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Corte costituzionale – sent. 10/2024: diritto all’affettività dei detenuti
26 gennaio 2024

Con la sentenza 10/2024 viene dichiarata, ad opera della Corte costituzionale, l’illegittimità dell’art. 18, legge 26 luglio 1975, n. 354 limitatamente alla parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino motivi di sicurezza, esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.

Numero
10
Anno
2024

E.R., detenuto presso la Casa circondariale di Terni, propone ricorso al Magistrato di sorveglianza di Spoleto, avverso il diniego oppostogli dall’amministrazione penitenziaria circa lo svolgimento di colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia minore di età.

Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto solleva questione di legittimità costituzionale rispetto all’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui «non prevede la possibilità, in capo alla persona detenuta, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia» (punto 1).

La Corte costituzionale, trovatasi ad analizzare il ricorso, limita la questione della affettività intramuraria all’individuazione del limite concreto entro cui lo stato detentivo può giustificare un sacrificio della libera espressione affettiva; limite oltre il quale la compressione della libertà stessa sarebbe lesiva della dignità della persona, rivelandosi così costituzionalmente ingiustificabile.

Il ragionamento della Corte costituzionale parte dall’assunto per cui l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono. Se è vero che lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che costituisce essenza delle formazioni sociali, è altresì vero che l’essere in vinculis non può – ancor più con una previsione astratta e generalizzata – annullarla alla radice. La pena, infatti, può considerarsi «una sofferenza tanto legittima in quanto inflitta nella misura minima necessaria» (punto 4).

Secondo la Corte il carattere assoluto e inderogabile del controllo visivo imposto dalla disposizione censurata risulta violare l’art. 3 Cost. tutte le volte in cui esso si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona poiché, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrono in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistono, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie capaci di giustificarlo.

Il giudice delle leggi ritiene altresì che l’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il coniuge, il convivente o l’altra parte dell’unione civile violi l’art. 27, terzo comma, Cost. Infatti, le modalità di colloquio prospettate all’interno dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 si rivelano inidonee alla finalità rieducativa della pena in quanto capaci di indebolire le relazioni affettive, peraltro già esposte a progressivo impoverimento, creando attorno al detenuto una situazione di desertificazione affettiva difficilmente compatibile con la risocializzazione.

La terza censura accolta dalla Corte è quella che il giudice a quo prospetta a carico dell’art. 117 comma 1 in relazione all’art. 8 CEDU, in quanto il carattere assoluto e indiscriminato del divieto di esercizio dell’affettività intramuraria posto dall’art. 18 della legge censurata comporta una compressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal paragrafo 1 dell’art. 8 CEDU, senza che sia verificabile in concreto, agli effetti del successivo paragrafo 2, la necessità di una misura restrittiva per esigenze di prevenzione dei reati e di difesa dell’ordine. 

La sentenza si sofferma poi sul rapporto tra permessi premiali e l’esigenza di permettere alle persone in vinculis di poter continuare ad avere relazioni affettive e intime. Secondo la Corte la concessione di permessi premio non ha piena efficacia satisfattiva dell’esigenza predetta in quanto la fruizione delle premialità resta preclusa alla maggior parte della popolazione carceraria stanti anche i presupposti soggettivi e oggettivi cui è subordinata la relativa concessione. 

Dopo aver indicato alcuni principi da rispettare per garantire il rispetto dell’affettività intramuraria, i giudici della Corte costituzionale stabiliscono che la realizzazione di colloqui intimi può essere limitata non solo per ragioni di sicurezza, ma anche per il mantenimento dell’ordine pubblico e della disciplina e per fini giudiziari nei confronti degli imputati. Chiariscono poi come, in coerenza con l’oggetto del giudizio principale, la sentenza non concerna i regimi detentivi speciali e fa salva la possibilità del legislatore di disciplinare la materia «stabilendo termini e condizioni diversi da quelli enunciati, purché idonei a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia» (punto 9).

Alla luce della analizzata sentenza, dunque, la prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con il coniuge, il convivente o la parte dell’unione civile prescritto dall’art. 18, legge 26 luglio 1975, n. 954 si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona e risulta dunque violare il parametro di costituzionalità, non perciò solo, ma in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili.

Il testo della decisione è disponibile al seguente link e nel box download.

Vanessa Lando
Pubblicato il: Venerdì, 26 Gennaio 2024 - Ultima modifica: Giovedì, 24 Ottobre 2024
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