Nella sent. n. 143/2024 la Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione circa la mancata previsione di un “terzo genere” mentre accoglie la censura relativa all’irragionevolezza dell’autorizzazione del Tribunale al trattamento chirurgico se la transizione è già compiuta.
Corte costituzionale – sent. 143/2024: inammissibile la censura circa la mancata previsione di un “terzo genere” e incostituzionale l’autorizzazione del Tribunale per gli interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali
23 luglio 2024
La vicenda e la questione sollevata dal Tribunale di Bolzano
Il caso di specie riguarda una persona di sesso anagrafico femminile (L.N.) che però non si riconosce né in tale genere né in quello maschile, bensì in un genere non binario.
Dopo aver ricevuto una diagnosi di disforia di genere per identificazione non binaria con propensione alla componente maschile, L.N. si rivolge al Tribunale di Bolzano per ottenere la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro” nonché per vedersi riconosciuto il diritto di sottoporsi a ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide.
Il Tribunale di Bolzano, al fine di prendere in considerazione tali richieste, solleva specificatamente due questioni di legittimità e, in particolare:
- censura l’art. 1 della L. n. 164/1982 perché, nella parte in cui non prevede che quello assegnato con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso possa essere un “altro sesso” diverso dal maschile e femminile, violerebbe gli artt. 2, 3, 32 e 117 co. 1 Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU;
- censura l’art. 31 co. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 perché, nella parte in cui subordina all’autorizzazione del tribunale la realizzazione del trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, violerebbe gli artt. 2, 3 e 32 Cost.
La decisione della Corte
Quanto alla prima questione, la Corte la dichiara inammissibile, in quanto eccederebbe «[...] il parametro del sindacato di questa Corte» (par. 5 del Considerato in diritto).
Dopo una ricognizione delle soluzioni adottate dagli altri stati europei sul punto, la Corte ricorda come la Corte Edu abbia recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga un’obbligazione positiva di registrazione non binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (Y. v. Francia, 31 gennaio 2023).
Tuttavia, prosegue «[...] La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.). Nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.» (par. 5.4).
Riconosciuta, dunque, la rilevanza del tema, la Corte ricorda, però, come l’eventuale introduzione di un terzo genere civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria e, per tale ragione, dichiara la questione relativa all’art. 1 della L. n. 164/1982 inammissibile.
Quanto, invece, alla seconda questione, la Corte la dichiara fondata.
Innanzitutto, fa presente come la previsione dell’autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali ha rappresentato una cautela adottata dalla legge n. 164 del 1982 nel momento in cui l’ordinamento italiano si apriva alla rettificazione dell’attribuzione di sesso.
Tale regime autorizzatorio è divenuto tuttavia irrazionale, nella sua rigidità, laddove non si coordina con l’incidenza dell’evoluzione giurisprudenziale sul punto che ha espressamente escluso che le modificazioni dei caratteri sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un trattamento chirurgico di adeguamento, quest’ultimo essendo soltanto un «possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico» (Corte cost., sent. n. 221 del 2015).
Pertanto, agli effetti della rettificazione, oggi è sufficiente l’accertamento dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata, percorso che è possibile compiere anche senza un intervento di adeguamento chirurgico, con la mera assunzione di terapie ormonali e sostegno psicologico-comportamentale.
L’autorizzazione del Tribunale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali prevista dall’art. 31 co. 4 del d.lgs. 150/2011 ha perso, dunque, ogni ragion d’essere in quanto, nella prassi, si verifica che le autorizzazioni agli interventi concesse dai Tribunali di merito vengono rilasciate contestualmente alla sentenza di rettificazione e non prima di quest’ultima né in sua funzione.
Non essendo dunque più necessario l’intervento chirurgico per ottenere una sentenza di rettificazione, non sarà più necessaria nemmeno l’autorizzazione del Tribunale a sottoporvisi.
La Corte, pertanto, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 – per irragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. – nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
Il testo della decisione è disponibile a questo link e nel box download.