Vai menu di sezione

Corte costituzionale – sent. n. 135/2024 – la Corte chiarisce la portata del requisito della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” richiesto per la procedura di assistenza al suicidio
1 luglio 2024

Nella sent. n. 135/2024 la Corte costituzionale rigetta la questione di legittimità sollevata dal GIP di Firenze sull’art. 580 c.p., come modificato dalla sentenza n. 242/2019 della stessa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», chiarendo contestualmente cosa debba intendersi per trattamenti di sostegno vitale.

Numero
135
Anno
2024

La vicenda e la questione sollevata dal GIP di Firenze

La pronuncia origina dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Firenze sull’art. 580 c.p., come modificato dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», in quanto in contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 Cost. (vd. anche Tribunale di Firenze – ord. 17 gennaio 2024).

Il caso di specie riguarda un soggetto, M., affetto da sclerosi multipla e definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressocché totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salva una residua capacità di utilizzazione del braccio destro.  

M., dopo aver maturato la ferma determinazione di accedere alla procedura di suicidio assistito, si metteva in contatto con un’associazione e, con l’aiuto del suo fondatore e di altri due soggetti, si recava in Svizzera per sottoporsi a tale procedura. 

A parere del giudice remittente, tuttavia, le condotte di queste tre persone che hanno aiutato M. a recarsi nel territorio elvetico rientrerebbero senz’altro nella sfera applicativa dell’art. 580 c.p. in quanto difetterebbe in M. il requisito della «dipendenza da trattamenti di sostegno vitale», requisito necessario per l’applicazione dell’ipotesi di non punibilità introdotta dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale.

M., infatti, non si avvaleva di alcun supporto meccanico, ma neppure era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita, né richiedeva interventi assistenziali.

Ritenute dunque sussumibili le condotte di agevolazione del caso di specie nella fattispecie di cui all’art. 580 c.p., il giudice a quo con la medesima ordinanza sollevava contestualmente dubbi di legittimità costituzionale del requisito in parola con riferimento specificatamente all’art. 3 Cost. (in quanto si viene a determinare un’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche), agli artt. 2, 13 e 32 co. 2 (in quanto il requisito provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie), nonché all’art. 117 Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU (implicando un’interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale alla tutela del diritto alla vita). 

La decisione della Corte

La Corte innanzitutto esamina la censura formulata rispetto all’art. 3 Cost., ritenendola infondata. 

Pur, infatti, consapevole della sofferenza sperimentata da chi si trova in una situazione di totale immobilità e dipendente dall’assistenza di terze persone, la Corte ribadisce che il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale «[...] svolge in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019» (punto 7.1. del Considerato in diritto).

In questo passaggio, la Corte ha chiarito che non esiste un diritto generale a terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile. Tuttavia, è stato ritenuto irragionevole impedire l'accesso al suicidio assistito per pazienti che, pur soffrendo in modo intollerabile e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali, hanno già il diritto, riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 e dall'art. 32 co. 2 Cost. di rifiutare i trattamenti necessari alla loro sopravvivenza. Questo principio non si applica ai pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale, poiché questi non possono semplicemente lasciarsi morire rifiutando le cure. Pertanto, le due situazioni sono diverse e non si può parlare di disparità di trattamento ai sensi dell'art. 3 della Cost.

La seconda censura, anch’essa ritenuta infondata, discute il mancato riconoscimento del diritto al suicidio assistito per i pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ritenendo che ciò violi il diritto all’autodeterminazione (artt. 2, 13 e 32 co. 2 Cost.). 

La Corte riconosce il diritto fondamentale del paziente a rifiutare trattamenti medici, inclusi quelli necessari alla sopravvivenza, ma distingue questo diritto dalla nozione più ampia di «autodeterminazione terapeutica», che implica il diritto a disporre della propria vita con l'assistenza di terzi, come riconosciuto da alcune corti costituzionali europee e internazionali. Tuttavia, la Corte ritiene che la legalizzazione del suicidio assistito crei rischi di abusi e pressioni sociali su malati e anziani, sottolineando che spetta al legislatore bilanciare il diritto all'autodeterminazione con la tutela della vita umana, non essendo questo un compito della Corte.

La terza censura sostiene che vietare l'assistenza ai pazienti che chiedono di morire sebbene in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019 (eccetto la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale) sia contrario al principio di tutela della dignità umana. Questo obbligherebbe il paziente ad un processo di morte lento, in modo non conforme alla sua concezione di dignità.

La Corte sottolinea però che ogni vita ha un'inalienabile dignità, indipendentemente dalle sue condizioni. Pertanto, non si può affermare che il divieto penale dell'art. 580 c.p. costringa a vivere una vita oggettivamente "non degna". Quanto invece alla nozione soggettiva di dignità, ovvero quella connessa alla percezione personale del paziente e alla sua immagine di sé, pur riconoscendone l'importanza, la Corte rileva che questa nozione coincida con quella di autodeterminazione, la quale implica che ogni individuo debba poter fare le scelte fondamentali riguardanti la propria vita e morte. Questa autodeterminazione deve essere bilanciata con il dovere di tutela della vita umana e il legislatore ha un ampio margine di apprezzamento per trovare il punto di equilibrio più appropriato.

Infine, il giudice a quo sostiene che la normativa che vieta l'assistenza al suicidio per pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma affetti da patologie irreversibili e capaci di decidere, violi il diritto alla vita privata (art. 8 CEDU) e crei una discriminazione (art. 14 CEDU).

La Corte a riguardo richiama alcune pronunce della Corte EDU con cui si è arrivati a riconoscere il diritto di decidere quando e come porre fine alla propria vita come parte del diritto al rispetto della vita privata (cfr. Corte EDU, Haas v. Svizzera, 20 gennaio 2011). Tuttavia, la Corte EDU comunque concede agli Stati un ampio margine di apprezzamento per bilanciare questo diritto con la tutela della vita umana e ciò non si porrebbe comunque in violazione della CEDU.

La Corte Costituzionale, pertanto, si allinea a questa lettura dell'art. 8 CEDU della Corte di Strasburgo, non ritenendo irragionevole limitare l'assistenza al suicidio ai pazienti che possono già rifiutare trattamenti di sostegno vitale.

Tutto ciò premesso, la Corte procede ad un chiarimento di che cosa si debba intendere per "trattamenti di sostegno vitale" (punto 8 del Considerato in diritto).

In particolare, si afferma: «il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente

Ed ancora: «Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019».

La Corte poi ricorda come l'accertamento della dipendenza da questi trattamenti deve essere fatto insieme alla verifica degli altri requisiti stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019.

Infine, la Corte ribadisce l’auspicio, già formulato nelle sue precedenti pronunce sul tema, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervenga ad assicurare concreta e puntuale attuazione attraverso una disciplina specifica.

Il testo della decisione è disponibile a questo link e nel box download.

Sul tema:

Vedi anche: 

Rosa Signorella
Pubblicato il: Lunedì, 01 Luglio 2024 - Ultima modifica: Venerdì, 19 Luglio 2024
torna all'inizio