La Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164/1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), ribadendo che per ottenere la rettificazione non sia obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari e precisando la necessità di un accertamento rigoroso tanto della serietà e univocità dell’intento, quanto dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere.
Corte costituzionale - sent. n. 180/2017: per ottenere la rettificazione del sesso non è obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari
20 giugno 2017
Il Tribunale ordinario di Trento, con due ordinanze di analogo tenore, aveva sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della l. n. 164/1982. Tale disposizione prevede che «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
Il giudice a quo riteneva che tale norma fosse in contrasto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, in quanto «la previsione della necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti chirurgici pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale alla propria identità di genere». Sollevava, inoltre, un contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost., «per l’irragionevolezza insita nella subordinazione dell’esercizio di un diritto fondamentale, quale il diritto all’identità sessuale, al requisito della sottoposizione della persona a trattamenti sanitari (chirurgici o ormonali), estremamente invasivi e pericolosi per la salute».
Secondo la Corte costituzionale la questione risulta infondata poiché «la possibilità di un’interpretazione della disposizione censurata, rispettosa dei valori costituzionali di libertà e dignità della persona umana, è stata individuata e valorizzata sia dalla giurisprudenza di legittimità, sia da quella costituzionale». In particolare, la Corte richiama un consolidato orientamento costituzionale, il quale, a partire dalla sentenza n. 161/1985, riconosce che «[l]a legge n. 164 del 1982 si colloca […] nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale».
A testimonianza di una condivisa interpretazione costituzionalmente orientata, la Corte costituzionale richiama la sentenza n. 15138/2015 della Corte di Cassazione, nella quale viene riconosciuto che l’acquisizione di una nuova identità di genere possa risultare da un processo individuale che non postula la necessità di un intervento chirurgico, «purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale siano oggetto di accertamento anche tecnico in sede giudiziale».
Più recentemente, la stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 221/2015, ha affermato che «la prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente –, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico».
Alla luce delle considerazioni esposte, la Corte dichiara la questione non fondata.
Nel box download il testo della sentenza.