La Corte d’Appello di Milano condanna l’Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo e alcuni medici dipendenti della detta struttura sanitaria, convenuti in giudizio d’appello dalla vedova Liessi, per aver sottoposto a trasfusione di sangue coattivamente il paziente Remo Liessi, ministro di culto dei Testimoni di Geova, nonostante il suo lucido e reiterato rifiuto.
Corte d’Appello di Milano - Caso Liessi: libertà religiosa e rifiuto dei trattamenti
19 agosto 2011
Riformando in parte la sentenza di primo grado, la Corte d’Appello riconosce la responsabilità degli appellati per violazione della libertà personale del paziente, della sua dignità di uomo e ministro di culto, del suo credo religioso e infine del diritto all’identità personale.
Emerge dalla ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di prime cure che al sig. Liessi veniva diagnosticata nel maggio del 1996 una patologia grave (neoplasia gastrica maligna) curabile unicamente tramite terapia emostrasfusionale. Il paziente aveva già dalla prima diagnosi espresso fermamente, tanto in forma verbale quanto in forma scritta, la propria volontà di non essere curato con trasfusioni di sangue, in ragione della propria fede religiosa. Da un esame psichiatrico risultava assente qualunque stato di alterazione mentale. I medici procedevano quindi al TSO, ricevuta la necessaria autorizzazione dal magistrato di turno, con l’aiuto di agenti della Polizia di Stato appositamente convocati al fine di allontanare i familiari del paziente, che veniva quindi immobilizzato e trasfuso coattivamente in una situazione di oggettiva tensione. Il paziente decedeva poco dopo per complicazioni cardiache.
Il giudice del Tribunale di Milano con sentenza 14883/2008 aveva sostanzialmente disconosciuto il diritto all’autodeterminazione del paziente ritenendolo soccombente rispetto al diritto alla salute, inteso come preservazione della vita a qualunque costo, e rispetto al dovere imposto per legge in capo agli esercenti le professioni sanitarie di curare il paziente anche contro la sua volontà (“la richiesta di ricovero e l’accettazione del paziente nella struttura sanitaria … impongono ai medici di adempiere a quella funzione di protezione che costituisce l’essenza stessa della professione ma che è anche … un obbligo giuridico ed esigono l’applicazione della terapia ritenuta da essi medici in scienza e coscienza necessaria quoad vitam”). Il giuridizio di bilanciamento era stato pertanto risolto nel senso di ritenere prevalente il diritto di rifiutare trattamenti sanitari solo nel caso di risoluzione del contratto di cura, quindi solo nel caso in cui il paziente avesse lasciato volontariamente la struttura sanitaria. Il Tribunale riteneva responsabili i convenuti solo nella misura in cui avevano utilizzato modalità di trattamento caratterizzate da violenza fisica e morale, tradottesi in un “pregiudizio alla vita e agli altri diritti della persona del paziente” e dunque alla base di un obbligo risarcitorio ex artt 1218 e 1226 cc.
La Corte d’Appello ragiona nei termini che seguono:
- Risulta incoerente ritenere che quando il malato si affida alle cure del medico non possa opporsi alle sue scelte terapeutiche, mentre torni nella piena libertà di scegliere cosa sia meglio per sé dopo aver chiesto le dimissioni dalla struttura ospedaliera. Sostenere ciò equivarrebbe a ritenere che il diritto all’autodeterminazione trovi spazio e tutela solo al di fuori del rapporto sanitario, conclusione che appare inaccettabile sia sul piano giuridico che su quello etico.
- Il rispetto del principio di gerarchia tra le fonti dell’ordinamento giuridico impone di considerare come prevalente il diritto di autodeterminazione del paziente sancito dall’art. 32 della Costituzione rispetto alla posizione di garanzia del medico, che trova riconoscimento nell’art. 40, comma 2 del codice penale, nel contratto d’opera concluso per effetto del ricovero nel nosocomio o per effetto della richiesta di cure e infine nelle norme deontologiche della categoria medica, tutte norme evidentemente di rango inferiore rispetto alla Costituzione.
- Già consolidata giurisprudenza della Suprema Corte ha evidenziato e ormai assodato come il diritto di autodeterminazione sia diverso dal diritto alla salute e rappresenti una “forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla” (Cass. Civ., sez. III, n. 2847/2010).
- Il giudice di primo grado ha invece trascurato il diritto dell’individuo ad uno stato di benessere anche psichico, considerando il diritto alla salute solo nella sua accezione fisica, impostazione che non trova riscontri sul piano costituzionale: “non esiste nel nostro ordinamento giuridico nessun bene vita, inteso come entità esterna all’uomo, che possa imporsi … anche contro ed a dispetto della volontà dell’uomo, ma esiste invece il bene di vivere da uomo libero con la propria identità e dignità”.
Alla luce di queste considerazioni la Corte condanna gli appellati al risarcimento di una somma di 300.000 euro a titolo di danno morale non patrimoniale unitariamente considerato, subito dal paziente Liessi (“morto vittima di profonda sofferenza morale, subendo la violazione di diritti costituzionali che ogni comunità democratica giudica inviolabili e che avrebbero meritato ben altra considerazione”) e di 100.000 euro per il danno morale subito in proprio dalla vedova Liessi.