Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute sulla questione dell’onere della prova nelle azioni risarcitorie per il danno da nascita indesiderata e sull’annoso e complesso tema della legittimazione ad agire per c.d. "wrongful life".
Corte di Cassazione - Sezioni Unite - sent. 25767/2015: danno da nascita indesiderata
22 settembre 2015
Con ordinanza interlocutoria n. 3569, 23 febbraio 2015, la III sezione civile della Corte di Cassazione rinviava alle Sezioni Unite la decisione circa due questioni fondamentali relative all’accertamento del danno da nascita indesiderata.
I motivi dedotti nel ricorso in Cassazione erano:
1. la violazione delle disposizioni del codice civile e dell’art. 6 della legge n. 194/1978 nel riversare sulla gestante l’onere della prova del grave pericolo per la sua salute dipendente dalle malformazioni del nascituro.
2. la violazione degli artt. 2, 3, 31 e 32 Cost nella negazione, alla figlia minore, del suo diritto a un’esistenza sana e dignitosa.
Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la III sezione della Cassazione rilevava l’esistenza di diversi e contrapposti orientamenti giurisprudenziali quanto alla questione dell’onere probatorio nell’accertamento del danno da nascita indesiderata.
Con riguardo al secondo motivo del ricorso, la III sezione rileva un contrasto ancor più marcato nella giurisprudenza di legittimità quanto al riconoscimento della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento dei danni a carico del medico e della struttura sanitaria.
Quanto al primo motivo del ricorso (onere della prova):
L’impossibilità, per la madre, di compiere la propria scelta e di autodeterminarsi circa il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile. «La gestante, profana di scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grava l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste».
Tuttavia, occorre che ricorrano i presupposti per accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, ossia che siano accertabili mediante appositi esami clinici rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso causale con un grave pericolo per la salute psico-fisica della madre.
L’oggetto della prova, ad avviso delle SS.UU., è un fatto complesso, composto da: la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psico-fisica della donna, la scelta abortiva.
La prova verte dunque anche su un fatto psichico: l’intenzione di abortire della donna. Questa non può essere oggetto di prova in senso stretto e può eventualmente essere provata tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa risalire all’esistenza di un fatto psichico. Secondo la Corte d’appello, l’onere della prova di tutte le circostanze ricadeva sulla gestante. Le SS.UU. concordano con il giudice d’appello nel ritenere che le circostanze “facoltizzanti” debbano essere provate dalla donna: in altre parole, la donna deve provare, attraverso una serie di circostanze (ad esempio, “pregresse manifestazioni di pensiero”) la propria volontà abortiva in caso di gravi malformazioni del feto. Tuttavia, sul professionista ricade l’onere della prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto. L’errore della Corte d’appello sta nell’aver escluso di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.
Appare distinto il problema dell’accertamento di un danno conseguente al mancato esercizio del diritto di scegliere se abortire. Secondo le SS.UU., è da escludersi l’esistenza di un danno in re ipsa, ma occorre che la situazione di grave pericolo per la salute psico-fisica della donna si sia poi tradotta in un danno effettivo, verificabile anche mediante CTU.
Sul secondo motivo del ricorso (wrongful life):
Il tema del secondo motivo del ricorso verte sulla legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico, persona ancora non era.
Richiamandosi ad un proprio precedente del 1993, la Cassazione ricorda che: «una volta accertata l’esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, e il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev’essere riconosciuto in capo a quest’ultimo il diritto al risarcimento (Cass., sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503)».
«Si può dunque concludere per l’ammissibilità dell’azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione». Secondo la Cassazione bisogna, tuttavia, esaminare a fondo la natura del diritto che con una tale azione si assume leso e il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.
Quanto al concetto di danno, la Corte rileva che esso è identificabile nella vita stessa e l’assenza di danno nella morte del bambino. E ciò conduce ad una contraddizione insuperabile: dal momento che l’assenza di danno è la non-vita, questa non può essere considerata un bene della vita, tanto meno dal punto di vista del nato, per il quale il bene leso diverrebbe l’omessa interruzione della sua stessa vita. Non si può quindi parlare di un diritto a non nascere.
A sostegno della propria tesi, la Cassazione utilizza anche l’argomento comparatistico, richiamando le sentenze che, a partire dal precedente statunitense del 1967, hanno negato, negli USA, in Germania e nel Regno Unito, il diritto al risarcimento del danno da wrongful life. A maggior ragione, l’esclusione di un diritto ad agire in giudizio per il risarcimento del danno derivante dalla (propria) nascita indesiderata appare testimoniato dall’evoluzione giurisprudenziale e normativa cui si è assistito in Francia in seguito al caso Perruche.
Il ricorso viene quindi accolto limitatamente al primo motivo e rinviato alla Corte d’appello per un nuovo giudizio.
Il testo della sentenza è disponibile nel box download.