Con la sentenza del 13 marzo 2025 (causa C-247/23), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata rispetto all’interpretazione dell’art. 16 del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), affermando che il diritto alla rettifica dei dati personali si estende anche ai dati relativi al genere e che gli Stati membri non possono subordinare tale diritto alla prova di un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso.
Corte di Giustizia UE - Sentenza C-247/23: Rettifica dei dati sull’identità di genere e art. 16 GDPR
13 marzo 2025
La questione nasce da un rinvio pregiudiziale del giudice ungherese (Fővárosi Törvényszék - Corte di Budapest-Capitale) nel contesto di una controversia tra VP, un cittadino transgender iraniano che nel 2014 aveva ottenuto status di rifugiato in Ungheria in ragione della sua identità di genere, e l’autorità competente ungherese, che nel 2022 aveva rifiutato di rettificare nel registro dell’asilo il genere e il nome di VP, poiché egli non aveva fornito prova di un’operazione chirurgica di riassegnazione del sesso.
Il giudice del rinvio osserva che sebbene la legge ungherese in materia di diritto all’asilo contenga una disposizione generale relativa alla rettifica delle iscrizioni erronee, essa non preveda né la procedura né le condizioni per una rettifica del sesso anagrafico e del nome.
Ritenendo di dover sospendere il giudizio, la Fővárosi Törvényszék formula tre questioni pregiudiziali da sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea:
1. Se l’articolo 16 del RGPD debba essere interpretato nel senso che l’autorità incaricata della tenuta dei registri ai sensi del diritto nazionale sia tenuta, in relazione all’esercizio dei diritti della persona interessata, a rettificare il dato personale relativo al sesso di detta persona registrato dall’autorità nel caso in cui tale dato sia cambiato dopo il suo inserimento nel registro e non sia pertanto conforme al principio di esattezza stabilito dall’articolo 5, paragrafo 1, lettera d), del GDPR.
2. In caso di risposta affermativa alla prima questione pregiudiziale, se l’articolo 16 del GDPR debba essere interpretato nel senso che richiede che la persona che chiede la rettifica del dato relativo al suo sesso fornisca prove che giustifichino la sua domanda di rettifica.
3. In caso di risposta affermativa alla seconda questione pregiudiziale, se l’articolo 16 del GDPR debba essere interpretato nel senso che la persona richiedente è tenuta a dimostrare di essersi sottoposta ad una riassegnazione chirurgica del genere».
Sulla prima questione
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che l’art. 16 del GDPR, relativo al diritto alla rettifica dei dati personali, rappresenti una concretizzazione del diritto fondamentale sancito dall’art. 8 della Carta di Nizza, che tutela l’accesso ai dati personali e la possibilità di ottenerne la rettifica. Lo stesso art. 16, poi, deve essere interpretato in combinato disposto con l’art. 5, paragrafo 1, del GDPR, il quale impone il principio di esattezza dei dati: ogni dato trattato deve essere corretto, aggiornato e, se necessario, modificato o cancellato. L’articolo considerato, infine, deve essere letto alla luce anche del considerando 59 del GDPR, che evidenzia la necessità di rendere semplice e accessibile per l’interessato l’esercizio dei diritti previsti, inclusa la rettifica.
L’operazione ermeneutica così proposta, poi, deve chiaramente tenere in considerazione la ratio generale del regolamento: garantire un elevato livello di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali della persona, in particolare il diritto alla vita privata e alla protezione dei dati personali (art. 8 della Carta di Nizza e art. 16 TFUE).
La Corte osserva come nel caso concreto spetti al giudice nazionale valutare se il dato anagrafico inserito nel registro dell’asilo – nello specifico, quello relativo al genere – sia effettivamente esatto. Qualora il dato abbia la funzione di identificare la persona titolare dello status di rifugiato, poi, esso deve riflettere l’identità di genere vissuta dalla persona, e non il sesso assegnato alla nascita. Nel caso di VP, quindi, persona transgender riconosciuta come rifugiata dall’Ungheria, il dato riportato risulta inesatto fin dall’origine, poiché non corrispondente al genere percepito ed esperito dall’interessato.
Inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dal governo ungherese, l’assenza di una normativa nazionale specifica sul riconoscimento dell’identità di genere non può giustificare una limitazione del diritto alla rettifica di cui all’art. 16 del GDPR. Una siffatta restrizione, infatti, è ammessa solo nei casi esplicitamente previsti dall’art. 23 del regolamento stesso, ossia per motivi di interesse pubblico generale, non rilevabili nel caso in esame.
In conclusione, la Corte di Giustizia risponde alla prima questione affermando che la l’art. 16 del GDPR deve essere interpretato nel senso che impone alle autorità incaricate della tenuta dei registri pubblici la rettificazione dei dati relativi all’identità di genere, qualora risultino inesatti, in conformità con il principio di esattezza previsto dall’art. 5, paragrafo 1, lettera d), del regolamento.
Sulla seconda e terza questione
Ritenendo di dover esaminare congiuntamente le due questioni, la Corte chiarisce, in primis, come l’art. 16 del GDPR non precisi quali siano gli elementi di prova che l’autorità titolare del trattamento può richiedere al fine di dimostrare l’inesattezza dei dati di cui la persona fisica chiede la rettifica.
La Corte di Giustizia chiarisce che è legittimo che l’interessato sia tenuto a fornire elementi probatori che siano ragionevoli, pertinenti e sufficienti, in relazione alla rettifica richiesta. Tuttavia, uno Stato membro può limitare il diritto alla rettifica ex art. 16 GDPR solo nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 23 del GDPR, che a tal fine prevede due condizioni fondamentali: che la limitazione avvenga mediante una fonte di rango legislativo e che la stessa rispetti l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali che il regolamento mira a tutelare.
Nel caso esaminato, la Corte ha rilevato l’assenza in Ungheria di una legge che disciplini modalità con cui ottenere la modifica del dato relativo al genere nel registro dell’asilo. Al suo posto, esiste una prassi amministrativa che richiede la prova di un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso.
Secondo la Corte tale prassi viola il GDPR, poiché impone una limitazione al diritto alla rettifica in assenza di una base legislativa, in contrasto, quindi, con quanto stabilito dall’art. 23.
Inoltre, questa prassi lede diritti fondamentali come l’integrità personale e la vita privata, tutelati sia dalla Carta di Nizza (art. 3 e art. 7), sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8). La Corte EDU, infatti, ha più volte ribadito che l’identità di genere rientra tra gli aspetti più intimi della vita privata, e che uno Stato non può imporre l’intervento chirurgico come condizione per il riconoscimento legale dell’identità di genere.
Infine, la Corte di Giustizia sottolinea come subordinare la rettifica del dato relativo al genere alla prova dell’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso rappresenti una misura né necessaria né proporzionato per assicurare la coerenza di un registro pubblico come quello dell’asilo, in quanto un certificato medico o una diagnosi psicologica possono essere considerati elementi probatori sufficienti a tal fine.
Pertanto, la Corte conclude che, l’art. 16 del GDPR deve essere interpretato nel senso che, pur potendo l’interessato essere chiamato a fornire prove pertinenti e ragionevoli per ottenere la rettifica del genere in un registro pubblico, uno Stato non può imporre, tramite prassi amministrativa, la produzione di prove che attestino l’avvenuto trattamento chirurgico di riassegnazione del sesso.
Il testo completo della sentenza è disponibile al seguente link e nel box download.