Il Tribunale di Termini Imerese ha condannato un medico di una struttura ospedaliera per aver effettuato una trasfusione di sangue nonostante il rifiuto espresso dalla paziente Testimone di Geova. Nella sentenza viene evidenziata la centralità del consenso informato del paziente in assenza del quale il medico non può attuare un trattamento; il Tribunale sottolinea che al medico non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato.
Tribunale di Termini Imerese - sent. 465/2018: esecuzione di trattamenti sanitari in assenza del consenso del paziente
6 aprile 2018
Il caso all’esame del Tribunale
Una donna in gravidanza viene ricoverata nell’Unita Operativa Complessa di Ostetricia poiché accusa una sintomatologia caratterizzata da vomito e dolori addominali. Gli accertamenti medici rivelano che la paziente soffre di calcoli biliari. Dall’analisi dei dati presenti nella documentazione agli atti, il caso clinico in questione richiedeva l’intervento chirurgico.
La decisione terapeutica chirurgica si basa non solo sul quadro clinico della paziente, ma anche sul fatto che è consigliato effettuare l’intervento nel secondo trimestre della gravidanza.
La paziente viene sottoposta ad intervento chirurgico e a seguito di alcune complicanze insorte dopo l’intervento i medici decidevano di procedere ad una trasfusione.
La paziente, spiegando ai medici di essere Testimone di Geova, ha espresso il rifiuto di sottoporsi alla trasfusione. Nonostante il ripetuto diniego della volontà di essere sottoposta alla trasfusione i medici hanno proceduto ad effettuare tale trattamento.
Il Tribunale ha deciso di condannare il medico che ha ordinato l’esecuzione della trasfusione per il reato di violenza privata (art.610 c.p.). A tale conclusione il Tribunale è giunto tenendo in considerazione sia le peculiari condizioni della paziente, sia la giurisprudenza esistente in tema di legittimazione dell’attività medica e di consenso informato.
Il Tribunale premette che, nonostante il medico sia autorizzato in una situazione di imminente pericolo di vita ad effettuare una trasfusione di sangue anche senza il consenso del paziente, il caso di specie non si configura come una situazione di pericolo di vita non essendovi un serio e grave perturbamento delle fondamentali funzioni organiche del soggetto. L’imminenza di un grave danno alla paziente è peraltro contraddetta dal fatto che l’emotrasfusione non venne effettuata immediatamente non appena rilevato il valore dell’emoglobina, ma a distanza di oltre tre ore.
La giurisprudenza più risalente evidenzia che l’attività medica rinviene la propria autolegittimazione negli artt. 13 e 32 Cost. le cui disposizioni si configurano come norme immediatamente precettive. Il consenso, così come evidenziato dalla sentenza n. 35822 del 2011 della Cassazione, afferisce all’autodeterminazione del singolo e al diritto che ciascuno ha al rispetto della propria integrità corporea; di conseguenza non è configurabile in capo al medico un “diritto di curare” derivante semplicemente dalla abilitazione all’esercizio della professione, poiché essa, per potersi estrinsecare, necessita di regola il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario. Per queste ragioni la mancanza del consenso opportunamente informato determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale.
Anche la sentenza n. 26446 del 2002 della Cassazione sottolinea il ruolo cardine del consenso; la sentenza stabilisce che il medico non può porre in essere alcun trattamento di fronte al rifiuto espresso da parte del paziente, anche nel caso in cui l’omissione dell’intervento possa determinare un peggioramento dello stato di salute del paziente.
Il consenso informato si configura, quindi, quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2,13 e 32 della Costituzione. La Corte ha ribadito il principio della sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato contro la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata e ciò a prescindere dall’esito fausto o infausto del trattamento sanitario praticato.
Di conseguenza, Il Tribunale di Termini Imerese afferma che la volontà del paziente rappresenta il limite ultimo non valicabile e non sacrificabile dell’esercizio dell’attività medica. Nella relazione tra medico e paziente, quest’ultimo se in possesso delle capacità intellettive e volitive deve avere libera disponibilità del bene salute, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio della vita stessa e che deve sempre essere rispettato dal medico.
Il testo della sentenza è disponibile nel box download.