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Comitato dei Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite - S.C. e G.P. c. Italia: condanna dell’Italia per violazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali con riguardo alla legge 40/2004
7 marzo 2019

Il Comitato ONU che monitora il rispetto del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali ha accertato la violazione da parte dell’Italia del diritto alla salute sessuale e riproduttiva di una coppia che aveva fatto ricorso alla procreazione assistita e che voleva donare alcuni degli embrioni generati, affetti da un grave difetto genetico, alla ricerca scientifica.

Numero
E/C.12/65/D/22/2017
Anno
2019

I fatti pregressi

Nel 2008, la coppia si era rivolta a una clinica italiana, specializzata in tecniche di PMA, per tentare una prima fecondazione in vitro. Era stata anche richiesta una diagnosi pre-impianto per verificare l’eventuale presenza di malattie genetiche negli embrioni generati prima del loro impianto in utero.

La clinica non aveva autorizzato la diagnosi pre-impianto perché incompatibile con il dettato della Legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante Norme in materia di procreazione medicalmente assistita.

Il Tribunale di Firenze aveva concesso alla coppia il ricorso al procedimento richiesto, ma aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale sugli articoli della legge ritenuti ostativi alla richiesta della coppia. La diagnosi preimpianto aveva accertato la presenza di una malattia genetica in ognuno dei tre embrioni che erano stati prodotti dalla fecondazione in vitro, nessuno dei quali era stato impiantato.

Dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 151 del 2009, aveva dichiarato incostituzionale l’art. 14, commi 2 e 3, della legge citata, la coppia si era rivolta nuovamente alla clinica per un secondo tentativo, che portò alla creazione di 10 embrioni.

Di questi, l’unico che non presentava alcun difetto genetico aveva scarse probabilità di annidamento. La donna, per questo, si rifiutò di sottoporsi all’impianto. Ancora una volta, la clinica contestò la richiesta poiché, ai sensi della l. 40/2004, il consenso della donna all’impianto poteva essere revocato solo fino al momento precedente la fecondazione dell’ovulo. La ricorrente, quindi, onde evitare di essere chiamata a giudizio per rispondere del suo rifiuto, accettò di sottoporsi all’operazione. La gravidanza, tuttavia, non ebbe esito positivo e si concluse con un aborto spontaneo.

La coppia espresse il desiderio che gli altri 9 embrioni, che erano stati crioconservati, venissero donati alla ricerca scientifica. Una destinazione che, secondo la legge italiana, non era tuttavia possibile.

La coppia si rivolse nuovamente al Tribunale di Firenze affinché ordinasse alla clinica di destinare gli embrioni alla ricerca e accertasse la legittimità del rifiuto manifestato dalla donna all’impianto degli embrioni. Il Tribunale di Firenze richiamò nuovamente l’intervento della Corte costituzionale, ma con la decisione n. 84 del 2016, sulla legittimità degli artt. 6 comma 3 e 13 della l. n. 40/2004, vide la respinta la questione: solo al legislatore spetta la competenza a decidere come bilanciare il rispetto della vita e le esigenze della ricerca scientifica.

Nonostante questo richiamo, tuttavia, non ci fu alcun intervento legislativo.

La decisione del Comitato ONU

I ricorrenti si rivolsero al Comitato ONU per i diritti economici, sociali e culturali, che ha riconosciuto l’incompatibilità delle disposizioni nazionali con gli artt. 3 e 12 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

Il Comitato, infatti, osserva che il diritto alla salute in ambito sessuale e riproduttivo, strettamente connesso ai principi di tutela della vita, della sicurezza e della libertà, include il diritto individuale a compiere scelte libere e responsabili sul proprio corpo e sulla propria salute, senza discriminazione. Il godimento di queste libertà non può subire limiti ingiustificati da parte dell’autorità statale (art. 4 del Patto).

La legge italiana vigente “restricts the right of women undergoing the treatment to waive their consent, leading to possible forced medical interventions or even pregnancies for all women undergoing in vitro fertilization treatments”(punto 10.3).

Questo, oltre a comportare una diretta violazione all’integrità psico-fisica della donna, preclude alla ricorrente l’accesso a un trattamento sanitario che in altri Stati membri è accessibile, con un’ulteriore violazione del divieto di discriminazione sancito all’art. 3 del Patto.

Il Comitato, quindi, condannando l’Italia al risarcimento dei danni fisici e morali subiti dai ricorrenti, e ricordando l’obbligo di ciascuno Stato aderente al Patto di conformarsi alle disposizioni in esso contenute, invita il Parlamento italiano ad elaborare una nuova disciplina in materia, idonea a garantire:

- “The right of all women to take free decisions regarding medical interventions affecting their bodies, in particular ensuring their right to withdraw their consent to the transfer of embryos to their uterus” (punto 14 a));

- “The access to all reproductive treatments generally available and to allow all persons to withdraw their consent to the transfer of embryos for procreation, ensuring that all restrictions to the access to these treatments comply with the criteria provided by article 4.” (punto 14 b)).

Infine, ai sensi dell’art. 9 del Protocollo Opzionale del Patto, l’Italia è invitata a rendere note al Comitato, entro 6 mesi, le misure prese in adeguamento di questa raccomandazione.

Il testo della decisione è disponibile nel box download.

Alberto Pagliari
Pubblicato il: Giovedì, 07 Marzo 2019 - Ultima modifica: Lunedì, 02 Settembre 2019
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