La Corte di Strasburgo ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla madre di una minore affetta da una rara forma di infermità e in stato vegetativo persistente, avverso la decisione dei giudici inglesi che avevano autorizzato, su richiesta dei medici curanti, l’interruzione del trattamento di sostegno vitale della figlia.
Corte Europa dei Diritti dell’Uomo – Parfitt v. UK: interruzione di un trattamento di sostegno vitale su minore
20 aprile 2021
La figlia della ricorrente (P.K.) soffriva, fin dai primi mesi di vita, di encefalopatia acuta necrotizzante (ANE), patologia solitamente terminale, in concreto contraddistinta dalle seguenti condizioni: stato vegetativo persistente, mancanza di percezione dell’ambiente circostante, dolore o disagio, totale dipendenza dalla ventilazione meccanica, incontinenza e cecità corticale.
In un procedimento di fronte alla High Court of Justice, il responsabile dell’ospedale pediatrico (dipendente dal National Health Service Trust, NHS) in cui la minore era in cura, sulla base di numerosi esami medici attestanti danni cerebrali permanenti, richiedeva l’autorizzazione a interrompere il trattamento di sostegno vitale.
La minore era rappresentata in giudizio da un guardian appositamente nominato dalla stessa Corte, il quale aderiva alla domanda del NHS. La madre di P.K., invece, si opponeva, chiedendo la prosecuzione del trattamento terapeutico in ambiente domestico.
Le opzioni valutate dal Collegio erano tre: proseguire il supporto ventilatorio meccanico all’interno della struttura ospedaliera; sperimentare una ventilazione portatile (tramite tracheotomia) per permettere il ritorno presso il domicilio; interrompere il supporto ventilatorio meccanico vitale.
Alla luce del criterio del “best interest” della minore, la decisione di primo grado aveva autorizzato l’interruzione della ventilazione. Avverso tale sentenza, la madre aveva presentato appello, rigettato dal giudice di seconde cure. Il permanere dello stato vegetativo, infatti, secondo la valutazione dei giudici, non avrebbe apportato alcun beneficio medico alla condizione di P.K.; del resto, anche un eventuale trasferimento in ambiente domestico (connotato da scarse probabilità di miglioramento) non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua condizione clinica già gravemente compromessa.
La madre adiva pertanto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fondando il proprio ricorso sulla ritenuta violazione, da parte del Regno Unito, degli articoli 2 e 8 CEDU, relativi rispettivamente al diritto alla vita e al diritto alla riservatezza familiare.
I giudici di Strasburgo hanno dichiarato manifestamente infondato il ricorso anzidetto, affermando la piena compatibilità tra la legislazione interna del Regno Unito a tutela del diritto alla vita e l’art. 2 della Convenzione. La Corte ha posto in risalto l’attenzione riservata dai giudici d’appello alle prospettazioni della ricorrente, nonché l’autonoma rappresentazione in giudizio degli interessi di P.K. da parte del guardian nominato giudizialmente. In merito all’articolo 8, ancorché appaia evidente l’interferenza della decisione dei giudici nazionali con il diritto alla riservatezza familiare, va evidenziato come essa sia conforme alla legge e sorretta dallo scopo legittimo di proteggere diritti e libertà (“best interest”) della minore. Per queste ragioni, anche sotto questo profilo, non risulta alcuna violazione della Convenzione.
Il testo della sentenza è disponibile nel box download e a questo link, mentre a questo link è disponibile il testo della sentenza della Corte inglese.
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