La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015, (Misure Urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività di impresa di stabilimenti di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1 comma 2 e 21-octies della legge n. 132 del 2015, legge di conversione che ha al contempo abrogato e reintrodotto la precedente disposizione nella sua letterale identità.
Corte costituzionale - sent. 58/2018: Ilva, prosecuzione dell’attività di impresa e tutela della salute
7 febbraio 2018
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato con ordinanza del 14 luglio 2015 le questioni di legittimità della norma enunciata del decreto in riferimento agli artt. 2,3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma e 112 della Costituzione.
La questione di legittimità originava dal procedimento penale a carico di R.S. e altri dirigenti e tecnici in servizio dello stabilimento Ilva, imputati ai sensi degli artt. 110, 437 e 113, 589 c.p., per aver omesso di predisporre cautele, volte a prevenire la proiezione di materiale incandescente e strumentazioni idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori, determinando, così l’infortunio mortale di un operaio. Per esigenze cautelari, durante l’indagini preliminari, è stato disposto il sequestro preventivo senza facoltà d’uso dell’altoforno da cui era originata una colata di ghisa incandescente.
I difensori di Ilva hanno chiesto di dare attuazione all’art 3 del d.l. n. 92 del 2015, che ,secondo la loro interpretazione, avrebbe determinato una sospensione ex lege dell’esecuzione del vincolo reale.
Per garantire il necessario bilanciamento tra esigenze di continuità dell’attività produttive, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché della finalità di giustizia, il primo comma norma impugnata prevede la possibilità di continuare l’attività di impresa, anche a seguito di un provvedimento di sequestro, quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori.
Al comma due si prevede che l’attività di impresa non possa protrarsi per un periodo superiore a 12 mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro. Inoltre , affinchè l’attività possa proseguire entro “30 giorni dall’adozione del provvedimento di sequestro, l’impresa deve predisporre un piano recante misure e attività aggiuntive anche di tipo provvisorio, per tutelare la sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all’impianto oggetto del provvedimento di sequestro” (comma 3).
Questo piano va comunicato al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della ASL e dell’INAIL, i quali devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto del sequestro, che può avvenire anche a mezzo di ispezioni e devono anche verificare la concreta attuazione delle misure previste dal piano.
La sentenza in esame si collega con la n. 85/2013, con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità degli artt. 1 e del d.l. n. 207/2012 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), poi convertito, con modificazioni dalla legge n. 231/2012, poiché di prevedevamo limiti specifici per la prosecuzione dell'attività di impresa e una correlata disciplina per verificarne il rispetto.La difesa evidenziava come il decreto legge del 2015 si ponesse in linea di continuità con la precedente normativa , già oggetto di valutazione da parte della Corte, e godrebbe, dunque, della medesima copertura costituzionale già riconosciuta alla precedente normativa.
Il rimettente, invece, ritiene che la disposizione censurata mostri profonde differenze rispetto alla predente disciplina per l’assenza di “specifici contrappesi normativi”.
Secondo il giudizio della Corte, la questione appare fondata. Si evince, infatti, come nel presente caso, a differenza del precedente, «Il legislatore non abbia rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti» (punto 3.2) .
Tale situazione deriva dal fatto che, secondo la disciplina impugnata, per la prosecuzione dell’attività di impresa, la parte privata deve semplicemente redigere un “piano”, senza la necessità di partecipazione di altri soggetti pubblici e privati.
Inoltre la concessione di un termine di trenta giorni per la predisposizione del piano pone una duplice problematica:
- Per prima cosa un termine così dilatato fa sì che manchi del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo
- In secondo luogo, in pendenza del termine la produzione continuerà senza il rispetto di nessun piano
Inoltre il provvedimento deve recare “misure e attività aggiuntive”, che possono essere anche di tipo provvisorio non essendo però le stesse meglio definite senza alcun rinvio ad altre normative, si pone un problema sul piano sanzionatorio, rendendo difficile la possibilità di una reazione.
Infine, non vi è alcuna partecipazione delle autorità pubbliche nella redazione del piano, essendo queste solo destinatarie di una successiva pubblicità notizia.
L’esito dell’analisi della norma denota un’ eccessiva sproporzione in favore della prosecuzione dell’attività di impresa rispetto alla tutela del diritto alla salute, alla vita (artt. 2 e 32 Cost.) e del diritto al lavoro in un ambiente sano, sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.). La lesione dei suddetti diritti porta infine anche a una violazione dell’artt. 41 Cost., dovendo l’attività d’impresa non recare danno alla sicurezza, alla liberà e alla dignità umana.
In conclusione la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art 3 del decreto legge 4 luglio 2015, n. 92.
Nel box download il testo della sentenza.